Gabriele non dormiva ormai da svariate settimane. Ogni notte era una battaglia. Si sdraiava nel letto, cambiando posizione in continuazione, le lenzuola diventavano nodi sotto il suo corpo nervoso. Contava le crepe sul soffitto, i minuti che scorrevano sul display dell'orologio, ascoltava i rumori più lontani della città addormentata. Ma il sonno non veniva mai. Solo occhi spalancati nel buio, il cuore martellante e la mente intrappolata in un vortice sempre più profondo.
Di giorno, vagava come uno spettro tra le ombre del mondo reale. Ogni gesto era rallentato, ogni parola gli sembrava provenire da una bocca lontana. Era diventato una sorta di zombi, trascinato da un automatismo svuotato di senso. Il volto smunto e le occhiaie profonde lo facevano sembrare una creatura emersa da un incubo. A tratti si chiedeva se fosse davvero sveglio o se stesse ancora sprofondando in un sogno contorto.
I medici avevano eseguito esami su esami. EEG, risonanze, esami del sangue. Tutto normale. Persino il suo corpo, smagrito all'eccesso e pallido come cera funebre, sembrava sfidare la logica terrena. "Lei sta dormendo a occhi aperti," gli disse una neurologa, ma Gabriele sapeva che era una menzogna gentile, un velo gettato sull'abisso. Ogni minuto era vivido, interminabile. Nessuna tregua. Nessun sogno. Solo ore, minuti, secondi. Una tortura lucida, un incubo sveglio che odorava di follia primordiale.
Lavorava in un archivio polveroso del Comune, un luogo che pareva fuori dal tempo, infestato da documenti ingialliti e presenze senza nome. Il volto scavato era spiegato con una battuta: "Troppo caffè, troppe scartoffie". Sorridevano, lui fingeva di sorridere. Ogni giorno, la luce del neon ronzava più forte, i volti dei colleghi si deformavano appena, come se li vedesse attraverso una membrana acquosa, quasi amniotica. L’aria era densa di vecchia carta, muffa e qualcosa di più antico, un sentore di decomposizione intellettuale.
Poi, iniziò a vedere l'uomo con la valigia. Un tipo distinto, sempre impeccabilmente vestito: giacca grigia su misura, cravatta scura, scarpe lucide. Sembrava uscito da un ufficio di Wall Street, un broker finanziario più che un'apparizione spettrale. Ma c'era qualcosa di profondamente inquietante nel suo sguardo. Non era solo la fissità: era uno sguardo severo, carico di giudizio, come quello di un giudice antico che osserva un colpevole in attesa della sentenza. Un misto di rimprovero e collera trattenuta, che faceva vacillare la sanità di Gabriele. Sempre immobile, sempre con quella valigia nera lucida. Ma col passare dei giorni, le sue apparizioni si fecero più frequenti. Lo vedeva nella folla della metropolitana, fermo sulla banchina, lo sguardo puntato su di lui. Al semaforo, tra i passanti, o dentro una vettura che incrociava la sua in strada: pochi, interminabili secondi in cui i loro occhi si incontravano, e poi l’uomo spariva, come dissolto nell’aria. La sua presenza era sempre silenziosa, ma opprimente, come un presagio che si fa carne. Mai una parola. Solo uno sguardo fisso, paziente, come un antico custode degli inferi.
Gabriele non osava parlarne a nessuno. Aveva già provato con uno psichiatra, il quale gli aveva prescritto ansiolitici e un ricovero. Ma Gabriele non voleva dormire in un letto bianco sotto sguardi clinici. Voleva capire. Sapeva che c’era qualcosa sotto la realtà, qualcosa che respirava tra le pieghe del mondo.
Dopo svariati giorni, all'ennesima apparizione, Gabriele non riuscì più a trattenersi. L'uomo con la valigia era lì, fermo al margine del marciapiede, lo sguardo fisso su di lui. «Ehi tu! Fermati!» urlò, con voce spezzata dalla rabbia e dalla disperazione.
I passanti si fermarono per un istante, poi si allontanarono rapidamente, spaventati da quell'urlo improvviso. Alcuni lo guardarono con disgusto, altri con paura. L'uomo con la valigia non si mosse subito, ma poi voltò lentamente lo sguardo e, per la prima volta, si allontanò a passo svelto.
Era la visione più lunga che Gabriele avesse mai avuto di lui. Un’occasione che non poteva lasciarsi sfuggire.
Lo seguì con il cuore che martellava come se avesse corso una maratona. L’uomo svoltò in un vicolo e Gabriele dietro di lui, le strade si facevano sempre più strette, i lampioni più radi. L'ombra dell’uomo si allungava come un artiglio tra i muri scrostati. Infine entrò in un edificio abbandonato, un'ex scuola elementare, le cui mura sembravano trasudare memorie proibite.
Dentro era tutto buio. Gabriele accese il telefono per illuminare la via. L'odore di muffa e umidità gli salì alle narici, insieme a un sentore di carne bagnata e legno marcio. Sentì dei passi sopra di lui. Salì le scale scricchiolanti e trovò una porta aperta.
All'interno, una sola sedia. Su di essa, la valigia.
E l’uomo era lì.
In piedi, accanto alla finestra sbarrata, immerso nell’ombra. La luce del telefono rimbalzava appena sul volto cereo, sulle orbite vuote e fisse.
«Ti aspettavo,» disse con voce secca, priva di inflessioni.
Gabriele non rispose. Non poteva. Il cuore sembrava stringerglisi nel petto come un pugno.
«Hai viaggiato tanto, eppure sei rimasto sempre fermo,» continuò l’uomo. «Le notti bianche sono solo il riflesso del buio che hai dentro.»
«Chi sei?» sussurrò Gabriele, ma la domanda sembrava sciogliersi nell’aria come nebbia.
«Uno spettro? Una coscienza? Forse una conseguenza. Chiamami come vuoi. Non serve ricordare, perché io ricordo per te. E sono qui per assicurarmi che tu non dimentichi mai più»
Gabriele scosse la testa. «Io… non ricordo… non capisco cosa vuoi dire!»
L’uomo fece un sorriso che non toccava gli occhi. «Non ancora. Ma lo farai. E allora capirai perché ho camminato accanto a te in ogni istante.»
Un battito di ciglia, e l’uomo non c’era più.
Rimaneva solo la valigia, posata sulla sedia.
Con mani tremanti, Gabriele la aprì. Dentro, una pila di fotografie. Ma non ritraevano lui. Ritraevano l’uomo con la valigia. Nella prima era sorridente, con un abito elegante e una donna accanto: il giorno del suo matrimonio. Poi venivano immagini di vacanze, lui con la stessa donna e due bambini piccoli al seguito, sulla spiaggia, in montagna, sempre felice, sempre vivo. Poi le fotografie cambiarono tono. C’era una bara aperta, il volto dell’uomo pallido e immobile, circondato da fiori. Seguivano scatti di volti affranti, la moglie, i figli, un funerale sotto la pioggia. Le immagini sembravano impresse con un'inchiostro vivo, come intrise di un dolore muto e profondo.
Dietro l'ultima inquietante foto, una nota a mano: "Credo sia arrivato il momento di svegliarti... di ricordare."
Il cellulare gli scivolò di mano. Il buio lo inghiottì come una bestia affamata.
Quando aprì gli occhi, era in un letto. Luci al neon. Un tubo nella gola. Macchinari ovunque. Una voce calma e fredda disse: "Sta tornando."
Ma non era solo il personale medico ad accoglierlo. Altri volti erano lì, oscuri, con sguardi carichi di giudizio. Uomini in divisa. Poliziotti. Uno di loro si avvicinò lentamente.
"Signor Gabriele Leone," disse. "È cosciente? Sa dove si trova?"
Gabriele annuì appena. Il cuore batteva piano, come in attesa.
"Sa perché è qui? Ricorda cosa è successo quella notte?"
Lui scosse la testa. Non ricordava nulla. Solo l'uomo con la valigia.
Uno dei poliziotti aprì una cartella e gli porse una fotografia.
Era una scena notturna. Un corpo disteso sull'asfalto, una pozza di sangue nera sotto la testa. Accanto al corpo, una valigia nera lucida.
Il sangue gli gelò nelle vene. Le visioni, i giorni senza sonno, l’archivio, la scuola... tutto un frammento delirante della sua mente colpevole.
La valigia era reale.
E l'uomo non lo aveva mai lasciato.
E fu in quell’istante che Gabriele ricordò:
Il sapore metallico dell'alcol in bocca. La città notturna che correva sfocata oltre il parabrezza. Le risate strozzate nella gola e il piede pesante sull’acceleratore. Poi, l’ombra improvvisa sulle strisce pedonali. Un urto sordo, straziante. Il volto dell’uomo con la valigia sbattuto contro il parabrezza, per un interminabile attimo lo vide spiaccicato sul tergicristallo, occhi sbarrati, come se lo stesse severamente giudicando. Poi la sterzata, il rombo incontrollato dell’auto e lo schianto violento contro un muro. Il buio. Ricordò tutto.
Urlò. Un urlo lungo, viscerale, che fece accorrere gli infermieri. Ma ormai era troppo tardi: la verità era esplosa come un proiettile nella sua mente.
Pochi giorni dopo, ancora instabile e delirante, venne dichiarato cosciente e formalmente arrestato. Lo portarono via in manette, il viso vuoto e gli occhi spenti. Non oppose resistenza.
La cella era piccola, umida, con una branda di ferro e un cuscino ruvido. Lì dentro, Gabriele tentò di dormire per la prima volta dopo il risveglio. Ma appena chiudeva gli occhi, lui arrivava.
L’uomo con la valigia. In piedi ai piedi del letto, immobile, lo sguardo severo e implacabile.
Ogni volta che Gabriele provava a scivolare nel sonno, l’uomo gli si avvicinava e, senza dire nulla, lo fissava.
E ogni volta, Gabriele si svegliava di colpo, ansimante, in un bagno di sudore.
Così passavano le notti. Un eterno ritorno dell’incubo.
E il giorno non era che un’eco del tormento.
Non avrebbe più dormito. Mai più.
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Mi ricorda la trama di l’uomo senza sonno, un film del 2004 di Brad Anderson con Christian Bale.
Un film molto bello e intenso.
Mi piace come da piccole cose tiri fuori una storia. Se posso permettermi, secondo me dici un po’ troppo e lasci troppo poco all’immaginazione del lettore, ma è una mia opinione.